Inventare l'ignoto. La Spezia e il diritto alla città



"Da sempre le città sono teatri che mettono in scena il pensiero utopico; (...) incubatrici di idee, desideri, orizzonti di vita possibile che possono insorgere in determinati momenti della storia." 


Immagine fumettistica che rappresenta una manifestazione durante la Comune di Parigi (1871)

Così scriveva David Harvey sulle possibilità dello spazio urbano. 

Tuttavia le città sono diventate col tempo anche centri di accumulazione capitalistica e spazi di conflitto tra quei pochi che, producendo, restringono l'accesso alle risorse e ai beni comuni, e i molti che, lavorando, vengono determinati nella qualità della loro vita. Questo conflitto via via più forte nel corso del XIX secolo ha avuto due declinazioni specifiche nella configurazione e nel ruolo, come nell'aspetto e negli equilibri urbani. Da un parte l'urbanizzazione ha giocato un ruolo primario nell'assorbimento del surplus di capitale, alimentando processi di "distruzione creatrice" che hanno sottratto alla cittadinanza il diritto di determinare come costruire e ricostruire le proprie città.

Dall'altro lato questo conflitto latente è esploso periodicamente in grandi rivolte popolari, come nella Comune di Parigi del 1871, a seguito della riconfigurazione urbanistica voluta da Napoleone III e realizzata dall'urbanista Haussmann, quando i cittadini espropriati si sollevarono per imporre il governo rivoluzionario sulla capitale. Fragorosa reazione popolare e di piazza avvenne, quasi un secolo prima, nella Spagna di Carlo III. Nel 1766 il popolo di Madrid scese in massa nelle piazze contro la politica di ristrutturazione urbana e di costumi portata avanti dal Primo Ministro del re, il Marchese di Squillace, in un periodo di forte crisi di approvvigionamento del grano. Civilizzazione e ordine venivano sfidati nelle piazze, opponendosi ai meccanismi socialmente nocivi imposti dalla mano invisibile del nascente mercato nazionale.

Nel Novecento i grandi movimenti sociali del 1968 così come i più recenti del 2011 (dall'Italia, al Maghreb, da Sud America fino a Londra), sono stati a tutti gli effetti movimenti urbani: le città si presentavano quali formidabili centri propulsori non solo della lotta di classe ma di riappropriazione dei diritti collettivi, riconquistando spazi di aggregazione come le piazze e le strade. Nel procedere della storia del capitalismo e della produzione fordista, il lavoro salariato è diventato progressivamente uno spazio di lotta, un terreno di scontro e di conflitto aperto dal capitale e in cui strappare maggiori vantaggi e terreno all'avversario. Ma, allo stesso tempo, i centri urbani e i quartieri, spesso riqualificati e ripuliti, ricostruiti secondo una logica dell'ordine, del decoro borghese e del miglior controllo poliziesco, venivano vissuti come il campo di battaglia privilegiato dalle lotte sociali e politiche, luoghi di libertà, separati dalla vita normata della fabbrica.



Immagine storica della città di fine Ottocento. A destra è visibile la diga dell'Arsenale militare

Parlare di "diritto alla città", come proponeva Henri Lefebvre, richiama dunque la rivendicazione di bisogni essenziali. Ma quali bisogni? Quello ad esempio del libero accesso alle risorse della città, ai suoi spazi, la possibilità di sperimentare una vita urbana alternativa alle logiche e ai processi di industrializzazione e di accumulazione del capitale. Il diritto alla città è il diritto alla socializzazione, a pretendere la città che si desidera senza che questa venga imposta dalle logiche del mercato e del profitto. Tale diritto passa attraverso la rottura dei dispositivi di controllo e di omologazione della vita quotidiana, attraverso una riappropriazione dei tempi e degli spazi del vivere urbano. 

"Il nostro principale compito politico", suggerisce ancora Lefebvre, "consiste allora nell'immaginare e ricostituire un modello di città completamente diverso dall'orribile mostro che il capitale globale e urbano produce incessantemente".

Combattere questo "mostro" vuol dire, inoltre, invertire la tendenza dell'esproprio degli spazi verdi avvenuta nel corso della storia dell'industrializzazione. Il capitalismo è, a qualunque livello lo si consideri, un sistema di produzione dello spazio, vale a dire un potere di modellare i luoghi, di modificare profondamente i paesaggi, di trasformare le relazioni spazio-temporali. L'ambiente e il clima, la società e le forme di vita che abitano questo pianeta sono state alterate profondamente e senza sosta negli ultimi due secoli. La produzione, in particolare quella oramai insostenibile e inquinante ha dato un volto spesso inumano e fuori scala alla quotidianità del vivere. Produzione e distruzione, quindi, si tengono insieme in questo processo di accumulazione.  


L'attuale terminal crociere all'interno del porto commerciale di La Spezia.  Da 1 nave al giorno si arriverà fino a 4, secondo il progetto in discussione 

Pensiamo a La Spezia,
la città in cui viviamo. Una città prettamente "moderna", trasformata radicalmente nel corso della seconda metà dell'Ottocento con l'espansione industriale del neonato Stato italiano. Produzione industriale e militare, immigrazione ed espansione urbanistica sono state la cifra dello sviluppo economico cittadino. Nuovi quartieri operai e borghesi che hanno dato forma alla nuova città industrializzata. 

Nel corso del Novecento l'espropriazione di spazi ha continuato a ritmo forsennatoLa centrale Enel è figlia di quella stagione, di una richiesta di energia a basso costo, scegliendo questi luoghi come quelli da sacrificare sull'altare della crescita del paese. Prima ancora il porto commerciale proseguiva nella trasformazione del litorale spezzino già iniziata con l'Arsenale militare soffocando, nel freddo cemento delle banchine, le sue spiagge e i suoi storici stabilimenti balneari: sacrifici immani per soddisfare le ambizioni di una nascente borghesia capitalista. E poi le raffinerie, l'indotto militare, le inevitabili discariche tossiche solo in parte venute alla luce. 

Cosa rimane oggi di tutto questo? Aree abbandonate, recintate, dequalificate e altamente inquinate. Luoghi che offrono sempre meno lavoro e spesso dequalificato in attesa che si compia la definitiva trasmutazione in città turistica. Un cambiamento, si vedano le crociere, ancora una volta fuori scala, contro l'ambiente, la salute e la qualità del lavoro.

Nel pezzo "Italia città ostile" abbiamo scritto della necessità di pensare le piazze come luoghi irrinunciabili di aggregazione e fruizione libera e collettiva, contro la loro messa a profitto per questo o quel grande evento. Di mercificazione degli spazi abbiamo parlato nel pezzo di denuncia sulla concessione ultradecennale del Centro Allende, della sua pineta e delle sue stanze in cui tanti e tante si sono incontrati. 


Cartelli appesi all'entrata del Centro Salvador Allende dopo la notizia della lunga concessione a privati


Parliamo in tutti i casi di difesa del "diritto alla città": il diritto di decidere, finalmente, in che città si desidera vivere. Sul ruolo non mercificabile degli spazi pubblici, al chiuso o all'aperto. Su che futuro costruire, sul contributo concreto contro l'emergenza climatica che incombe inesorabile. Il diritto alla città, in questa città e in questo decisivo passaggio storico, deve passare attraverso la rivendicazione di quegli spazi, riqualificarli, pretendere che vengano restituiti ai cittadini come aree di qualità, sostenibili, riabilitate; beni comuni accessibili e fuori mercato. Pretendere che a decidere per una volta non siano interessi nazionali che hanno prodotto inquinamento e distruzione di intere aree verdi oppure interessi privati di questa o quella classe di imprenditori

Qui più che altrove, per la storia produttiva e sociale della città, tenere insieme questi desideri è come dover "inventare l'ignoto": esplorare orizzonti mai visti o dati per persi o irrecuperabili, sfidare la rassegnazione diffusa, la sensazione che non ci sia alternativa allo stato delle cose, se non una conversione scomposta e non meno impattante al turismo di massa. Diventa urgente, allora, liberare spazi urbani da vivere e far vivere, non lasciare che vengano alienati o sviliti nel loro valore "comune" dato dalle trame di relazione che lì possono darsi e non dagli utili che da lì si possono estrarre.  

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